
La rubrica dal titolo 'Le Recensioni 'gnoranti' accoglie opinioni su opere artistiche cinesi da parte di chi di Cina sa poco o niente. L'intento è quello di raccogliere punti di vista, ci auguriamo freschi e stimolanti, tesi a un'interpretazione libera da preconcetti di opere cinesi selezionate nell'ambito letterario, musicale, pittorico, cinematografico e via discorrendo. Oggi si parla di Diario di un Pazzo, racconto breve di Lu Xun, mostro sacro della letteratura moderna cinese.
Recensione di Luca Fidanza.
Prima di leggerlo avevo grandi aspettative. Ma ignoravo fosse così breve.
Sono a digiuno completo di letteratura cinese, pur avendo studiato la sua storia all’Università, ma il nome di Lu Xun ricorre da anni con legittima enfasi nelle conversazioni e nelle discussioni di tutti quelli che conosco e che hanno a che fare con la Cina. A fronte di un paesaggio culturale talmente antico e vasto, mi è apparso scontato intraprendere la lettura di un classico, di un autore e di un’opera tra le più citate, perchè ho sempre immaginato Lu Xun e il suo Diario di un Pazzo come dei simboli. Per queste ragioni mi sono accostato a questa lettura con un’impercettibile nota di deferenza e un forte rispetto che l’autore indubbiamente incute, sia a chi lo ha letto e sia a chi, come me, ne aveva sempre e solo sentito parlare.
Trenta pagine in tutto.
‘Ci metterò un istante’ mi sono detto alla prima occhiata…
"Sin da subito mi ritrovo immerso in una rappresentazione che rimanda alla sceneggiatura di un film, in cui si riporta alla luce un manoscritto andato perduto, una sceneggiatura di memorie."
Ebbene, la storia ha inizio con il narratore che fa visita a due fratelli a cui in gioventù era legato da una stretta amicizia e che non ha visto da un numero imprecisato di anni. Il più grande dei fratelli gli racconta che il più piccolo è stato male e che durante la sua malattia ha scritto un diario, il Diario di un Pazzo appunto, che il narratore inizia quindi a leggere. Negli appunti del diario è il Pazzo che parla senza scandire date, rovesciando sul lettore la sua mente, la sua sofferenza, le sue visioni. Sin da subito mi ritrovo immerso in una rappresentazione che rimanda alla sceneggiatura di un film, in cui si riporta alla luce un manoscritto andato perduto, una sceneggiatura di memorie. Una chiave per capire il passato e il presente del protagonista.
Noto immediatamente un flusso di coscienza evidente che agli occhi del mio retaggio occidentale è apparso come un già scritto, un già sentito. Echi di Joyce, Svevo, Kafka; il Pazzo che osserva, pensa, compone e frammenta. Autoanalisi, che altro? Sta di fatto che il mistero serpeggia, e affascina. Si ha la sensazione, solo la sensazione, che in passato sia successo qualcosa, che una frattura sociale abbia diviso amicizie. E forse anche i ricordi. Percepisco una costante disarticolazione nella narrazione. Avverto ansia. Le scene irrompono. Sembrano macchie di dolore e sconnessione. Esclamazioni improvvise. Quadro astratto? Forse.
Il protagonista è un vulcano. Lungo i capitoli assisto all’eruzione di una paura costante e senza fine che indubbiamente attanaglia. Il senso di paranoia si attacca alla pelle; sale la mania di persecuzione. Il bisogno di fuga.
E, atroci e improvvise, appaiono scene di cannibalismo.

Ci siamo: nell’eccesso espressivo del pazzo, in questa frenesia di un uomo che arranca e si dimena, si distinguono nette le descrizioni di uomini e animali; di cani che squadrano. Sale il convincimento del pazzo d’esser spiato e perseguitato, in una clausura volontaria e insieme costretta. In quell’angolo buio della sua casa, dove la luna si affaccia e scompare, il protagonista non smette di farsi domande. Domande che non avranno mai risposta se non nella libera esegesi del lettore. Sento riaffiorare l’Occidente, gli autori a me cari. I loro racconti in difesa, lo spaesamento, Il senso di reclusione nella società estranea.
Tra il terrore del Pazzo e il mondo che gli gira intorno le cose cominciano ad accadere velocemente. Appaiono bambini, nomi di persone, frasi inquietanti. S’intuisce che il Pazzo vaga per le strade, incontra moltitudini di persone. Altre volte parla o immagina da casa, dal suo villaggio, interpreta voci di corridoio, leggende, minacce. Una di queste è inquietante, è il grido di una madre al proprio figlio: ‘Sono così furiosa che ti mangerei!’
Il Pazzo trema, retrocede, riferisce di atti cannibali; descrive con precisione, spinge alla nausea e me la fa crescere nel petto, che batte sempre più forte, terrorizza con dettagli macabri, nella descrizione netta dell’oppressione avvertita, annusata, incorporata,
mentre gli sguardi continuano freddamente a indicarlo… persino quelli del fratello, dei conoscenti. È ormai al muro, indifeso, di fronte alla folla e all’immenso complotto che sta per emarginarlo, ucciderlo, divorarlo. Quando per lui sembra arrivare la fine, in un impeto liberatorio il Pazzo comincia a urlare e a implorare tutti gli altri, tutti i suoi accusatori e l’intera dimensione che lo comprime, di cambiare. Di salvarsi. Grida al mondo la sua disperazione senza uscita, riconosce la sua vita d’oppresso, la sua esistenza trascorsa sotto il giogo della morale comune, l’enorme minaccia del potere che divora, che seppellisce. Si chiede chi potrà mai salvarsi, da tutto questo. Forse, solo i bambini…?
Cosa ha voluto dirmi Lu Xun? Parecchie cose.
Anche se per digerirle a fondo ho dovuto leggermi il Diario due volte.
Quella che dopo la prima lettura sembrava la farneticazione disarticolata di un pazzo e che mi aveva indotto a pensare di essermi perso dei passaggi chiave, è evidentemente una critica feroce a qualcosa e a qualcuno che appaiono potenti e invincibili. Potrebbe sembrare ovvio che Lu Xun si riferisca alla società e alle sue millenarie tradizioni, al potente di turno, alle maglie impenetrabili di ogni potere terreno.

Ma credo che egli vada oltre. E che ci riesca benissimo. Lu Xun è stato medico, ha lavorato in Cina e in Giappone; ha curato, studiato e vissuto il centro della sua esistenza nello scorrere impetuoso degli anni ‘30 del secolo scorso, scorcio fondamentale di un’epoca in cui ha potuto analizzare e poi disprezzare le ingiustizie del potere millenario nelle sue maglie più tradizionali, nei suoi lati più oscuri, nell’estremizzazione della tradizione confuciana che permea quasi senza intervalli significativi la società e la cultura cinese. Un ripetersi senza discontinuità di schemi ipertrofici. Da una tale constatazione, Lu Xun non può che ricavare pessimismo e ribellione, e una rabbia che è costretto a reprimere. Ciò nonostante egli continua a ricercare senza sosta una via di fuga appellandosi ad energie nuove, e all’innovazione, in cui crede fermamente; utilizzando un linguaggio fresco e accessibile (nello scritto adotta il volgare al posto della lingua classica) per lui diviene quindi naturale l’impulso di rivolgersi ai giovani, e all’intero futuro nella sua potenziale grandiosità.
Secondo me, nel libro questo aspetto è oltremodo evidente, e certamente la poesia del racconto e dell’anima violentemente espressa dal protagonista, ne innalzano l’impatto emotivo. La frase finale è per i bambini e il tono del diario sfuma via tra disperazione e delicatezza.
"Ha saputo riassumere in poche righe aspetti spesso insondabili che rappresentano da soli il senso eterno e contraddittorio dell'esistenza degli uomini."
È certo che la mia estrema passione per le metafore, deve essermi stata d’aiuto nella lettura del Diario. Come è sicuro che l’ansia avvertita abbia prodotto un’osmosi completa con le intenzioni dell’autore. Stare sul filo è un aiuto enorme per la fascinazione verso uno scritto, di qualsiasi genere esso sia. Quindi, l’elogio a Lu Xun e al suo metodo narrativo non può che essere sperticato. Lo scrittore ha saputo riassumere in poche righe aspetti spesso insondabili che rappresentano da soli il senso eterno e contraddittorio dell’esistenza degli uomini.
La sorpresa accennata all’inizio riguardo la brevità (pensando ai riferimenti e al sentito dire mi ero immaginato un tomo pesante e voluminoso) lascia il tempo che trova, se, come in questo caso, dopo aver finito la lettura ti passano davanti agli occhi e nella mente una moltitudine di sensazioni e interpretazioni illimitate. Racchiuse in uno spazio così ristretto e in un tempo così breve, fanno pensare che forse nessuno sarebbe stato in grado di fare altrettanto. Lu Xun riassume un pensiero complesso, politico e antropologico, affidandolo a trenta pagine di un breve diario diviso in note, apparentemente scritte senza una logica definita. Presenta la mente e la scrittura di un Pazzo, lo definisce e insieme lo sfuma, sembra voler mettere in difficoltà il lettore, ma l’impressione finale è che in realtà lo consideri intelligente, e perfettamente in grado di elaborare la sua personale interpretazione.
È bello confessare di aver adorato questo racconto.
"La vera storia di Ah Q e altri racconti"
Lu Xun
Traduzione di Luciano Bianciardi
Editore: SE
Collana: Assonanze