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La Recensione 'gnorante: "Goddess", capolavoro del cinema muto cinese



La rubrica dal titolo 'Le Recensioni 'gnoranti' accoglie opinioni su opere artistiche cinesi da parte di chi di Cina sa poco o niente. L'intento è quello di raccogliere punti di vista, ci auguriamo freschi e stimolanti, tesi a un'interpretazione libera da preconcetti di opere cinesi selezionate nell'ambito letterario, musicale, pittorico, cinematografico e via discorrendo. Oggi parleremo di 'Goddess' (神女, shén nǚ) film muto girato da Wu Yonggang nel 1934, considerato uno dei capolavori del cinema cinese.

Recensione di Maurizio Zinni, docente di Storia dei movimenti e dei partiti politici presso l’Università di Roma La Sapienza.


Uno dei requisiti minimi di un grande film è quello di parlare a tutti. Non conta la nazionalità, la lingua, i costumi e le vicende che vengono narrate, un film riuscito si fa comprendere a qualsiasi latitudine e tocca le corde più intime dello spettatore sia che questi si guadagni da vivere pescando aringhe in Groenlandia, sia che passi il tempo passeggiando nell’outback australiano. Il film “Goddess” (1934) rientra proprio in questa categoria. I fattori che ne caratterizzano la trama ed il sottotesto filmico appaiono alla fine della pellicola come un elemento accessorio che solo in parte zavorra quello che è, a tutti gli effetti, un sontuoso melodramma familiare con risvolti politici e solo apparentemente femministi.


La storia ambientata in una Shanghai che alcuni squarci notturni ritraggono come una Chicago orientale, brillante e corrotta, è un classico dramma familiare in cui una madre amorevole e premurosa lotta contro una società ostile e classista per crescere al meglio il figlio ed assicurargli un futuro migliore. Per fare ciò la donna è costretta ad una doppia vita scandita inesorabilmente dal ticchettio degli orologi presenti in casa e dall’accendersi e spegnersi dei lampioni che illuminano le strade al calar del sole: di giorno genitore inappuntabile e devoto; di notte passeggiatrice, reietta e marginalizzata dalla stessa società che la obbliga ad una vita in cui non vi è possibilità di redenzione.



Il film diviene così il racconto di un martirio laico in nome di un concetto di giustizia privata ancor prima che storica. La protagonista, madre senza nome capace con i suoi slanci di elevarsi al rango di figura idealtipica, con il suo sguardo al contempo amorevole e sofferente diviene la personificazione dell’amore materno nella sua forma più compita. Ella annichilisce sé stessa pur di dare una identità al figlio, riconosciuto da tutti semplicemente come “bastardo”; i suoi occhi rivolti al cielo in una sorta di supplica non ascoltata richiamano alcuni primi piani struggenti di altre eroine-martiri della storia del cinema muto, su tutte quella della Giovanna d’Arco di Dreyer (non a caso girato qualche anno prima, nel 1928). Il resto, dalla vicenda del compagno sfruttatore a quella della bigotta società che emargina i due e li respinge, appare come uno stratagemma narrativo in cui i messaggi dichiarati scompaiono di fronte alla potenza di un rapporto che trova coronamento nei piccoli gesti, in una carezza, in un sorriso, in un abbraccio struggente perché assoluto. La forza di alcune scene fra la madre e il figlio dimostrano il potere melodrammatico di una storia senza tempo, che non ha vergogna di toccare le corde del patetico sapendo che non vi è nulla di male purché non lo si faccia in maniera strumentale.


Ruan Lingyu (阮玲玉), the Goddess

Tutto nella dimensione domestica appare credibile, molto meno lo sono invece le scene che dovrebbero dare la linea politica all’opera. La figura del preside, per quanto sensibile e toccante, si palesa come il più classico degli stratagemmi narrativi per risolvere la pellicola e dare la morale finale all’opera. Il suo sermone di fronte agli altri maestri sul valore formativo ed emancipatore della scuola appare come il portato di un cinema militante che guarda stilisticamente al vecchio continente e ad un cinema di matrice borghese e conservatrice.


Un approccio che emerge proprio quando si affronta il destino della madre/prostituta. Per lei non vi è redenzione possibile e la sua lotta contro un mondo ingiusto e classista si risolve in una lenta discesa agli inferi che non può che concludersi con la sua decisione di sparire dalla vita del figlio proprio per assicurargli un destino migliore. In questo caso l’afflato riformatore ed apparentemente emancipazionista dell’opera si scontra con un impianto narrativo, soprattutto rispetto al disegno drammatico della protagonista, che invece è fra i più tradizionali e moralisti. La donna introietta i suoi errori ed è lei stessa alla fine a condannarsi all’isolamento, quasi a voler liberare la prole da una sorta di peccato originario che, nonostante tutto, ricade solo sulle sue spalle e non sul mondo che li ha sfruttati e poi abbandonati.

Insomma, il tempo passa inesorabile e quello che rimane è la forza dei sentimenti più che la verbosità delle ideologie. Ecco perché proprio il genere del melodramma riesce a parlare a tutti, sia nella Cina degli anni Trenta, sia ad esempio nell’Italia degli anni Cinquanta. Registi come Wu Yonggang e Raffaele Matarazzo lo avevano capito e proprio per questo, per certi versi, furono molto più rivoluzionari di tanti altri.



Titolo: Goddess (神女, shén nǚ)

Regia: Wu Yonggang

Paese: Cina

Anno: 1934

Cast: Ruan Lingyu, Tian Jian, Zhang Zhizhi (The Boss), Li Keng

Produzione: Lianhua Film Studios


Link al film in cinese sottotitolato in inglese qui.

 

Maurizio Zinni: breve intro

Maurizio Zinni insegna Storia dei movimenti e dei partiti politici presso l’Università di Roma La Sapienza. I suoi interessi di ricerca si incentrano principalmente sulle icone moderne come fonti per la storia contemporanea e sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa come agenti di storia nella costruzione identitaria nel XX e XXI secolo. Fra i suoi scritti, 'Fascisti di celluloide. La memoria del ventennio nel cinema italiano 1945-2000' (Marsilio Editore), e 'Schermi radioattivi. L’America, Hollywood e l’incubo nucleare da Hiroshima alla crisi di Cuba' (Marsilio Editore). Maurizio studia da molti anni le icone moderne come fonti per la storia contemporanea e il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa come agenti di storia nella costruzione identitaria nel XX e XXI secolo.


Da parte della Redazione Buyiding un sentito ringraziamento a Maurizio per il suo magnifico contributo alla nostra 'Recensione 'gnorante' di oggi. 多谢!


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