
Dall'Italia alla Cina e ritorno. La sfida, a volte difficile, talvolta impossibile, di raccontare la Cina a chi non la conosce.
Di Luca Fidanza.
Sei mesi dopo era tutto perfetto.
Lavoravo come Maitre D, prima volta in vita mia, in un ristorante internazionale di Pechino. Una sfida. Una dimensione nuova, elettrizzante. Tutto lo era, in quel 2009 che mi avrebbe travolto, per tanti e diversi motivi, nei tempi a venire. Mi trovavo nella capitale cinese, praticamente disarmato: senza aver studiato la lingua, ignorando modi e luoghi, con un bagaglio quasi totale d’inesperienza. Vi ero finalmente approdato in seguito a una decisione solo apparentemente ponderata. Provenivo da tempi personali piuttosto oscuri; l’Italia mi aveva tramortito sul lavoro, sugli affetti personali, e infine su una certa capacità di reagire agli eventi. Mi costrinsi così a trovare una nuova direzione.
Quasi senza accorgermene, a pochi mesi dal mio arrivo, lavoravo in questo intenso microcosmo umano; capii quasi immediatamente come e quanto un ristorante fosse un luogo perfetto per il racconto: effettivamente quell’esperienza mi scaraventò addosso, in tutti i modi possibili, universi che prima di allora avevo solo potuto immaginare. Una dimensione irresistibile destinata a cambiarmi per sempre. Un caos vitale di lingue, atteggiamenti e situazioni paradossali che misero la mia vita di fronte a una scoperta continua. Insieme al cosmopolitismo autentico, scoprivo, come un adolescente entusiasta, la mia rinascita. Lavoravo sempre ed era un piacere persino sbagliare. Non mi curavo di sguardi o correzioni. Passeggiavo così, nel nuovo mondo.

A dispetto del ‘Terrore di Luglio’, mese d’approdo in terra cinese, amavo ormai definirmi un expat a tutto tondo, inserito, adattato e quindi giocondo.
Insomma…sei mesi dopo, in poco tempo, Cina era diventata Vita.
All’inizio furtivo e attendista seguì una sorta di coraggio bambinesco, incosciente, che scoprii in seguito come la chiave adatta per districarmi, nel miglior modo possibile, nelle situazioni più curiose. Potevo altresì contare sull’appoggio esperto di mio cugino, residente a Pechino da tanti anni ma ovviamente occupato col suo lavoro, ma non ancora su quello di mio fratello Fernando, anche lui in Cina da parecchio, e momentaneamente in Italia per ragioni famigliari. Per certi versi, all’inizio della mia avventura ero solo e, probabilmente, arrangiarmi in alcuni aspetti mi aiutò molto.
"Spavaldo e incosciente, accomodatomi ad un tavolo al centro del ristorante e discretamente affamato, scelsi con cura la fotografia più attraente del menu."
Vagare per la città sconosciuta dava i brividi, ma offriva, prima di tutto e in rapida successione, un assortimento di sensazioni che ovviamente si sarebbero definite in seguito. Fu un fatto, però, che immagazzinare sguardi, comportamenti e luoghi in ordine sparso, in quella dimensione di completa libertà, costituì l’inizio di un inserimento che mi fece sentire molto presto, ed è strano e malinconico riconoscerlo solo adesso, a casa.
Lo scontro migliore con una cultura diversa è quello comico. Almeno per me. E il mio scontro avvenne in un ristorante illegalmente piccante della cucina dell’Hunan, provincia cinese rinomata per l’inclinazione al gusto assai pungente. Il mio vero esordio. Fu dopo quello che combinai lì, in termini di assoluta impreparazione e goffaggine, che mi sentii per la prima volta pronto a tutto. Spavaldo e incosciente, accomodatomi ad un tavolo al centro del ristorante e discretamente affamato, scelsi con cura la fotografia più attraente del menu; quindi non la descrizione del piatto…non capivo la lingua parlata, figuriamoci quella scritta. Per questo mi convinsi che l’immagine fosse sufficiente, che quel rosso dominante nella grossa pentola immortalata nella foto sarebbe bastato per gustarmi adeguatamente il mio primo pranzo cinese in solitaria.

Un misto di curiosità e timore non ben definito accompagnò l’attesa mentre ripensavo all’espressione sorpresa del cameriere dopo avergli indicato il piatto che avevo scelto. Poi finalmente il pentolone enorme arrivò, col suo bel carico di brodo profondamente rosso che in effetti, e questo mi rallegrò non poco, era identico a quello visto nella foto del menu. Da lì, però, la tragedia ebbe immediatamente inizio: io non trovai nulla, nel continuo rimescolare quella zuppa. O almeno, non ricordo. C’era qualcosa, sì, certo, ma era qualcosa che non riuscivo a distinguere. Ritagli di verdure, pezzettini di carne, di pesce? Mi accorsi che non era poi così importante.
"Il seguito fu un insieme di tosse convulsa, lacrime e atti d’eroismo. Dio, non avevo mai mangiato una roba così piccante!"
Era importante che lì dentro ci fosse il Mar Rosso, e che purtroppo non si apriva; che dopo due cucchiai di zuppa cominciai a prepararmi al peggio, che gli altri clienti (tutti cinesi, tutti!) avevano cominciato a guardarmi, a fissarmi…e che le loro labbra si muovevano quasi impercettibilmente come quelle di chi sta trattenendo la più spaventosa risata della storia.
Il seguito fu un insieme di tosse convulsa, lacrime e atti d’eroismo. Dio, non avevo mai mangiato una roba così piccante! Così sciaguratamente forte, densa e soprattutto infinita. Minuti interminabili di pose finte per evitare sguardi e dolori al petto mi dividevano dall’uscita. A un certo punto, pensai anche di fuggire, nella pazzia che probabilmente mi stava assalendo. Una trappola, mi avevano teso una trappola! Pensavo a questo, nella sofferenza senza fine gettata in pasto al pubblico, che mai si sarebbe aspettato, credo, un divertimento simile, tale da poterlo raccontare alle generazioni future.
Ecco: avevo effettivamente assorbito il cruccio delle figuracce, fin lì minime. Le fotografie che i clienti scattarono nel mio fatale scontro col Certificato Autentico Piccante Hunanese me le immaginavo campeggiare come delle grandi e luminose locandine nei cinema nazionali: il Cinepanettone dell’anno: Lu Fei (il mio nome cinese) nello Hunan, Cina. Una specie di comic horror. Una zuppa fatta persona. Un brodo di lacrime e sangue, accompagnato dall’esaurimento delle scorte di tovaglioli dell’ampia sala riservata alle famiglie allargate. Se avessi parlato correntemente la lingua cinese in quel preciso momento storico, non avrei avuto nessuno scrupolo a presentarmi a tutti i clienti, in piedi e barcollante davanti al disastro sul mio tavolo, come un attore italiano di serie B in cerca d’esperienza e di fama.
Tutto questo avvenne veramente, ed è solamente per amor proprio, che io sia costretto a minimizzarlo nei limiti previsti dalla legge sul racconto.
Di fatto, dopo quel giorno non ebbi più paure: scoprii improvvisamente i vantaggi della sfrontatezza e i pregi della scioltezza, al punto che un bel giorno tornai leggero in quello stesso ristorante, in cerca di vendetta. Fu lì dentro che mi esibii, pronto a tutto, in uno dei miei primi selfie, ancora oggi simbolo d’avventura, una targa: raffigura la metà del mio viso, la metà meno arrossata, e le mie dita a V sul pentolone del Mala Xiangguo (麻辣香锅, che poi scoprii finalmente essere una zuppa di carne o pesce, tofu in varie forme e verdura) perfettamente ripulito, sconfitto e infine immortalato.
Poi altri giorni passarono; furono giorni faticosi. Le avventure su moltiplicavano.
Ma questa che sto narrando è un’altra storia.
Un dizionarietto d’andata e ritorno. Di braccia aperte e di braccia cadute.
Fino ad allora, in quell’indimenticabile annata tutto scorreva, e non c’era modo di mettere punti o incisi. Ero una freccia.
Persuaso del cammino fin lì percorso e dalla bontà della scelta di vita, epocale per me e per tutto quello che riguardasse il mio futuro, resisteva tuttavia una spina fastidiosa, qualcosa che in precedenza probabilmente avevo scansato sbuffando, e che ora lentamente e nonostante tutto, stava per riaffiorare. Si insinuava infatti la prima piccola nostalgia dopo quei mesi d’adrenalina. Stava nascendo il 2010 quando pian piano cominciarono a cadere i primi sguardi malinconici…lì, all’orizzonte. Avvertivo l’assenza dei miei amici rimasti in Italia.
"Dovevo fare qualcosa, dovevo prendermi le prime ferie. Avevo bisogno di raccontare tutto quello che stava succedendo a Pechino, Cina. Anni ‘10 del Terzo Millennio."
Ecco.
Per completare quella dimensione di serenità mediante cui ogni giorno potevo imparare e continuare a stupirmi, mancava il racconto di tutto questo a chi mi conosceva da sempre. Come avrei potuto pensare di godere, esclusivamente, d’avventure, persone ed errori di tutti i tipi senza farne partecipi i miei amici abbandonati? Coloro cioè che avevo idealizzato al punto di immaginarmeli all’aeroporto, in un flashback ritoccato, per salutarmi in partenza per la Cina col fazzoletto in mano, piangenti e disperati?
Non era per me cosa giusta la tentazione, quasi naturale oramai, di dimenticare tutte le storie condivise nel passato. Le giornate, i sogni, il progetto di una vita insieme. Dovevo fare qualcosa, dovevo prendermi le prime ferie. Avevo bisogno di raccontare tutto quello che stava succedendo a Pechino, Cina. Anni ‘10 del Terzo Millennio.
E così, in un moto entusiasta, decisi di botto: partire per rivederli.
Per raccontare. Per condividere con loro la mia Cina.
La ‘mia’ Cina mi accompagnò, e io, in aereo, raccontai anche a lei quello che stavo apprendendo. Le dissi di come all’inizio mi avesse squadrato diffidente e curiosa allo stesso tempo. Le narrai della sua durezza, abilissima e originale nel nascondere ciò che poi non fu altro che accoglienza. Le dissi del respiro corto dei primi giorni, e di come quel ritmo cambiò grazie alla pazienza necessaria per capire il linguaggio dei corpi, o i sottintesi di uno sguardo. Aggiunsi che probabilmente ero stato accorto nel cammino, o che magari avessi solamente sfruttato la fortuna di una buona educazione, per non demordere alle prime, ovvie difficoltà.
Ma quello che più mi premeva di ricordarle era che, dopo esser stato quantomeno sbadato prima di lasciare l’Italia, nel pensare che avrei avuto enormi difficoltà nell’affrontare un paese nuovo, lontano, un posto che chissà quali sorprese mi avrebbe riservato, e quanti spiacevoli fraintendimenti. La Cina, invece, diventò molto presto ‘solo’ un altro posto. Un posto che stavo vivendo. Punto.
Di straordinario c’era altro. C’era soprattutto il modo di vedere le cose. La coscienza risvegliata dall’assumere che la diversità di un posto risieda nello stato d’animo personale, ovvero quanto si sia pronti e disposti a meravigliarsi nell’ammirare un pensiero, un comportamento o un lineamento del viso, decisamente, e fortunatamente differenti. Quanto sia corroborante ascoltare suoni diversi nelle città mai viste, o il simbolismo, rivoluzionario per la propria mente, di un’architettura monumentale che regola con autorevolezza il flusso di milioni e milioni di persone. Il tentativo di comprendere persone, o cose, che non conosci. La forza di una domanda.
La leggerezza dell’incontro.
L’opportunità di ricordare qualcosa che fino ad allora, per necessità o per sfortuna, non avevi ancora ‘sentito’, né vissuto.
Insomma, tutto questo stava formando un sentimento nuovo. Ed era potente, potentissimo. E non si sarebbe più staccato da me.
Atterrato a Fiumicino ero ormai pronto al racconto.
Avevo dato per scontato che ci sarebbero state orecchie pronte ad ascoltarlo, ma la realtà dei fatti che seguirono fu lesta a persuadermi del contrario.
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