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Arrivo e ritorno (2da parte)



Il ritorno in Italia, carico di aspettative, si rivela una delusione. La volontà del raccontare la Cina si arrende di fronte al muro dei luoghi comuni.

Di Luca Fidanza.

Link alla prima parte del racconto.


Ci sono vari modi per interpretare i luoghi. I viaggi. I pensieri al riguardo.

Il giorno, quel giorno sognato arrivò, e una volta atterrato a Roma i pensieri, d’improvviso, si confusero. Roteavano tutti insieme. Senza logica, e ci mancherebbe altro.

Ebbene, poco dopo aver varcato la soglia di casa uno dei miei amichetti era già lì, a suonare alla porta. E l’abbraccio fu istantaneo, commovente; per fortuna quella scena risolse immediatamente l’impaccio, rendendo reali le aspettative, facendomi riassaporare la serenità della confidenza. Tra l’altro di lì a poco ci raggiunsero anche gli altri. Eravamo quattro. Inseparabili prima che partissi.


In quel giorno così agognato, in quel preciso momento capace di unire felicità e smarrimento, dovetti però pensare in fretta a una (pur) minima preparazione pratica, razionale al punto da poter elaborare al meglio la serie infinita di parole, memorie, battute che di certo, nella mia mente, avrebbero illustrato al meglio la personale gratificazione nell’aver passato quei mesi lontano da tutto e da tutti. Li avevo lì di fronte, e non potevo lasciar andare neanche un pensiero. Mi accorsi fin da subito, ahimè, che di tempo per elaborare ne avrei avuto fin troppo. Da quel giorno e negli anni a venire.

C’era ad ogni modo da aspettarsi quello che poi avvenne puntualmente, in sequenza: la sorpresa quasi infantile. Le risate dagli occhi lucidi. Le domande e le frasi di rito:

‘Ti sei ingrassato’

‘Ti sei dimagrito’

‘Andiamo subito a bere qualcosa’

‘Ma ‘ste cinesi?’

‘Ma che ti sei mangiato laggiù?’…

Ecco. C’era da aspettarselo, è vero, ma faceva parte del gioco, no? Come avrei e avremmo potuto sottrarci alle ovvietà? Che diamine! In fondo bisognava solo aspettare un po' per l’orazione, per la mia spinta verso i toni e i segni d’oriente. Li avrei portati per mano. Si sarebbero fatti portare per mano fin laggiù.

Era tutto quello che volevo.


"Say 'hello!' to Chairman Mao!"

Ma il mio ritorno non si consumò come avrei desiderato. Il mio slancio non venne recepito. Avrei scoperto l’amarezza fin dalle prime ore. Fin da quando il paesaggio delle domande, della loro curiosità e delle risposte alle oggettive novità che avevo portato con me si rivelò assai limitato. Dopo alcuni giorni ero persino stanco e annoiato. Di fatto, passate le conferme iniziali e superato in fretta il rituale dei convenevoli, si era pian piano insinuata in me una sottile insoddisfazione, una di quelle piccole crisi che ti fanno voltare la testa a caso, per ritrovare il ritmo perduto di una partenza perfetta. Dubbi. Disappunto.

Cosa stava succedendo?


Ricordo che fin dai primissimi accenni sulla vita che avevo cominciato in Cina notai sorpreso una certa disattenzione, fretta. Distrazione. Perché? Come era possibile non prestare attenzione a un caro amico che stava vivendo così lontano? In un posto così diverso? Cosa stava andando storto? Ero forse io? Era forse la mia paura di non essere all’altezza? Sebbene immotivata, la mia pretesa di voler gestire nel modo più adatto l’incontro coi miei ‘seguaci’ d’avventure cominciò così a mostrare delle crepe.


"Però volevo capire. Era la cosa che in quel momento mi premeva di più. Volevo scrollarmi di dosso l’imbarazzante sensazione di essere avvicinato con circospezione dagli amici."

Passai in ogni caso i primi giorni dal mio arrivo prevalentemente con loro. Avevo deciso di relegare in secondo piano la mia ansia narrativa; mi ero persuaso che ci sarebbe stato tempo e modo per tutto, e per provare a me stesso che forse quell’ansia era stata caricata da un fondo di egocentrismo, che probabilmente fino ad allora non avevo considerato come uno dei possibili motivi del ritorno a casa. Chissà, magari il problema era solo mio, mentre per loro tutto sommato la vita era quella, era stata sempre la stessa, e bastava rallegrarsi del fatto di potermi rivedere. Altro non gli serviva.

Però volevo capire. Era la cosa che in quel momento mi premeva di più. Volevo scrollarmi di dosso l’imbarazzante sensazione di essere avvicinato con circospezione dagli amici. Mi chiedevo se avessi detto qualcosa che li avesse indispettiti. Ecco. Proprio non volevo sentirmi responsabile di qualcosa. Poi la convinzione che l’idillio si fosse limitato a un ‘bentornato’ trovò riscontro durante una cena.

La Cena

Mangiando tra amici, negli intervalli tra i lavori disparati e le tensioni quotidiane, senza volontà di nessun genere, senza argomenti prestabiliti, ci si distende con naturalezza. Era questo che ricordavo di noi. Ma quella sera fu diverso. Ci volle tempo per cogliere consapevolezza di quello che era successo in quei sei mesi di distanza tra un mondo che avevo lasciato e quello che stavo scoprendo. Così all’inizio rimasi sostanzialmente in silenzio, cercando di capire quando poter cominciare a raccontare qualcosa. Aspettavo semplicemente le domande che si fanno di solito quando una persona torna a casa dopo tanto tempo. Non ero neanche sospettoso. Volevo essere sereno e infatti lo ero. Poi invece mi sembrò una cena identica a quella descritta in precedenza. Una cena di sei mesi prima.


Battute, risate, parole grosse, sentenze, argomenti frivoli. Un’ora o poco più. Non ricordo precisamente chi introdusse per primo l’argomento, ricordo comunque di non essere stato io.

Ma effettivamente fu in quel momento che si cominciò a parlare di Cina.

E allora, non so, forse presagendo i toni, diventai serio, improvvisamente. Stavo ripetendo a me stesso di restare concentrato, perché di certo non stavo vivendo una sensazione di benessere. Ricordavo che la Cina era lì, al mio fianco, con la sua forza, le sue opportunità, la sua unicità. E tuttavia ancora speravo nel sogno di renderli partecipi della mia nuova vita, di tutto quello che stavo imparando.

In tour a Shenyang con il fratello, Fernando.

A un certo punto, come a rompere l’incantesimo, qualcuno di loro disse, senza peraltro essere arrivato fin lì secondo una logica: ‘Vabbè, insomma, ma quando torni da lì? Lo sai o no, che tra poco i cinesi crolleranno?’

Cose così.

Questa fu la partenza. Un pugno. L’esordio del questionario che a un certo punto ho creduto non sarebbe più iniziato. ‘Quando torni a vivere qui?’

‘Ma perché dovrei tornare?’ Pensai subito.

Cercai di sorridere, tanto era lo sconcerto. Speravo di sbagliare, ma il bombardamento era solo all’inizio. Il dado era tratto. Riporto come una fedele cronaca una breve lista delle opinioni, in ordine sparso, dei commensali; una dimensione che avvertii come un attacco alla Cina e a me, che avevo avuto l’incoscienza di provare a capirla.

“I cinesi però devono trovare un modello di sviluppo più sostenibile, stanno distruggendo l’ambiente”

“Ma mangiano tutto! Non è questo un sintomo di arretratezza culturale?”

“Devono fare qualcosa per i diritti civili”

“E’ un gigante dai piedi di argilla, tra poco il ceto medio si ribellerà”

“Gli abbiamo insegnato tutto noi occidentali, sennò col cavolo che arrivavano a questi livelli”

“Non capisco il motivo per cui i cinesi non studiano la filosofia greca e latina e in generale la storia e la geografia occidentale!”

“Con i loro prodotti a basso prezzo distruggono la nostra economia!”

“In Cina non ci sono maiali e verdure, quando vedo Piazza Tian An Men non vedo alberi”

La Reazione

Dunque.

La mia reazione si manifestò tra silenzi quasi da ebete e vene del collo in estrema tensione. Il tempo passava senza che nessuno capisse il perché delle mie espressioni basite. Ma tant’è. Mi aspettavo senza dubbio un altro tipo di questioni. Magari più semplici. Certo l’angoscia era dolorosa, e proveniva dal fatto che nessuno di loro era stato in grado di comprendere l’insensatezza e soprattutto l’inopportunità di quegli approcci, argomenti rivolti senza nemmeno uno straccio di premessa che li giustificasse.


"Tutto il parlare, il discorrere si basò su opinioni artefatte, fondate sui penosi luoghi comuni letti e riletti della stampa italiana e internazionale."

Tutto conteneva quell’arroganza tipica delle sentenze, che denota una fastidiosa supponenza, tra le decine di sfaccettature e di argomenti ignorati, scansati con fastidio nelle poche e sciocche parole di qualcuno che non riusciva neanche a immaginare il vuoto del metodo usato per entrare in argomento. Da dove nasceva un simile concetto aprioristico, pregiudiziale? La sicumera dell’opinione e del paternalistico soccorso per me che evidentemente venivo considerato un ingenuo in un paese ‘incomprensibile’, mi stroncarono.

Tutto il parlare, il discorrere si basò su opinioni artefatte, fondate sui penosi luoghi comuni letti e riletti della stampa italiana e internazionale di cui ero già al corrente prima della decisione di partire per la Cina. Ma cavolo, ero certo che, grazie all’opportunità di avere un amico che era stato lì, nella realtà e non nel virtuale, avessero perlomeno immagazzinato una forte curiosità per sapere di più, per chiedere di più.


No. Tutto ciò che avevo creduto di poter raccontare si rivelò inutile. Non ci fu praticamente soluzione di continuità. Seguii con sorpresa e poi con malcelato stupore la sequenza e, più fastidiosamente, le considerazioni sconcertanti su un paese che non conoscevano, che non potevo credere, almeno in quel momento, potessero provenire dalle menti dei miei amici. Nessuna curiosità particolare; non un cenno alle mie presunte difficoltà d’inserimento in un mondo nuovo, al mio nuovo lavoro, a com’era Pechino, a dove abitavo, a nuovi amici, nuove cose, nuovo tutto, niente; nemmeno un dubbio da diradare su informazioni indotte dalla stampa e dalla comunicazione occidentale. Anni in cui si erano date per certe e ben strutturate notizie del tutto paludate e prevedibili.

Provai a salvare il salvabile di una serata che avevo da tempo immaginato come un piacevole incontro e che al contrario aveva preso una china sgradevole. Ma non mi fu possibile nemmeno questo. Al ripetersi di quei toni, i miei sentimenti, preparati a un desiderio di condivisione, crollarono con effetti quasi imbarazzanti. Cominciai a dialogare in maniera polemica, quasi a volerli provocare per la loro tracotanza, per la loro totale assenza d’empatia, per il loro dissacrante e continuo tono di sberleffo riguardo ai temi più comuni, una serie di impulsi volgari in sequenza che poi investirono anche le donne cinesi, la cucina cinese, la politica cinese, e comunque tutto ciò che riguardasse una dimensione per loro profondamente ignota e in ogni caso suscettibile d’attacco, di ironia crudele e infine di disinteresse. Se in quel momento avessi dovuto pensare a una parola ispirata dal loro modo di porsi, avrei scelto astio. Di fatto l’impatto di quella cena mi sconvolse, ma almeno mi aprì anche gli occhi.


The Mosto crew

Riflettei su particolari che evidentemente, nei giorni precedenti, non ero riuscito a cogliere, vuoi per l’entusiasmo del ritorno, vuoi per la sequenza sparsa di saluti, commenti monosillabici e dialoghi social rapidissimi che evidentemente non ebbi modo di mettere in connessione. Nei giorni seguenti alla cena e agli ultimi sporadici incontri, che definirei di protocollo, con i miei amici, cominciai a riavvolgere il nastro per rivedere quei particolari. Il risultato fu l’emergere di un quadro deprimente che in seguito mi avrebbe chiarito definitivamente l’urgenza dell’osservazione. La necessità del punto di vista. La primarietà della ricerca.

Fu al ritorno definitivo in Italia, nell’estate del 2014, che non trovai né osservazione, né punti di vista, né ricerca. Non le trovai nei conoscenti del mio quartiere, mentre ritrovai addirittura incattivita e improntata al pressappochismo tutta l’informazione riguardo alla Cina.

Non riscontrai nemmeno allora interesse alcuno per la mia vita all’estero se non nei miei cari. Il massimo sforzo per comunicare con me si fermava sulla linea della convenzione: ‘Finalmente sei tornato in Italia…Adesso m'immagino quanto e cosa mangerai!’

Da dove veniva tutta questa banalità?

Avevo sperimentato il colonialismo mentale occidentale già a Pechino tra i cittadini stranieri che con tono di superiorità, secondo loro elegante, giudicavano senza mezzi termini e senza ponderazione il paese che li stava ospitando. Avevo altresì nutrito sospetto negli anni precedenti nei comportamenti italiani tra le mezze frasi di politici impreparati e sciatti.

Ho cominciato a chiedermi se questo approccio monco alla Cina non derivasse, in ultima analisi, da una certa invidia. Invidia per la rapida e inarrestabile ascesa economica, invidia che con facilità si potrebbe assimilare alla paura, al terrore di perdere la preminenza economica durata secoli, a una diffidenza genetica verso tutto quello che viene da Est, a un razzismo mascherato figlio dell’ignoranza più classica.


Tra le righe dei miei sorprendenti incontri serpeggiava tutto questo. Non si vedeva bene, ma si sentiva molto. Un riflesso fortissimo che nel tempo, avrebbe accompagnato il mio ritorno a Pechino, negli anni d’elaborazione di un mondo e di una tensione emotiva che cresceva dentro e fuori da me. Una presa di coscienza che si conquista viaggiando e che tristemente si ignora se si resta ancorati alla tradizione del sicuro e dell’abitudinario, tra viventi e oggetti che non cambiano mai. Nella debolissima persuasione di non sbagliare mai. Senza accorgersi invece che la paura è sempre lì. Dietro l’angolo della propria sicurezza.


"Ma per raccontare occorre un ascolto, e la grazia di condividere."

Tutte le mie giustificazioni, le mie indulgenze sul disinteresse iniziale, su una distrazione congenita, persino sul triste sospetto che nulla fosse cambiato nella mentalità di ragazzi con cui avevo condiviso molto delle mie giornate, mentre intorno a noi c’era un mondo che cambiava rapidamente, mentre succede che i linguaggi stravolgano abitudini, modi di pensare, ecco…tutta la mia pazienza si era dissolta. Cominciò a sfaldarsi la prima volta e il cerchio si chiuse al mio ritorno definitivo in Italia.

Certo oggi, dopo tutte le esperienze affrontate, la pretesa di essere all’altezza di una condivisione continua, eterna, diviene una bazzecola triste. Un misto di delusione e sconforto che ancora non mi abbandona. Ma per raccontare occorre un ascolto, e la grazia di condividere. E mentre le inezie di aspettative idealizzanti si sono disperse all’impatto col passato immobile, è arrivata nel frattempo l’occasione di conoscere un disincanto fruttuoso, nutrito ovviamente anche da quell’esperienza negativa, e che fortunatamente mi lascia libero di percorrere le nuove strade senza particolari nostalgie.


Credo che l’idealizzazione, qualsiasi tipo di idealizzazione, comporti forzatamente rischi e delusioni fortissime, rallentamenti che potrebbero precludere l’accesso a spazi ben più ampi, a occasioni di miglioramento dal valore intrinseco e liberatorio. Io e la Cina ci siamo incontrati forse nel momento giusto, quando la mia sospensione di giudizio e sentimento sul mondo sembrava non avere soluzione. Attraverso i modelli culturali, le molte contraddizioni cinesi, la fatica e la possenza di un popolo, metaforicamente e non solo, emarginato dalle dinamiche sociopolitiche mondiali per secoli, ho potuto mettere un punto su quella sospensione, conquistando così una possibilità d’esplorazione molto più ampia. Quell’osservatorio privilegiato del confronto e della comparazione tra realtà spesso antitetiche eppure destinate all’incontro.

E’ per questo che un viaggio può essere un percorso netto. Non necessariamente fornito di partenze, o arrivi. Piuttosto un sentiero infinito dal quale poter deviare e tornare, intraprendere, conoscere e migliorarsi.

Il mio pensiero non era mai stato così aperto.

La simbiosi ideale, e mai perfetta, tra tutte le distanze.

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